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Riconoscere le fonti di informazione attendibili come antidoto alla "post-truth"

red-questionEletta a parola inglese dell’anno 2016, la cosiddetta post-truth (post-verità) rimanda ad un concetto apparentemente nuovo. Il termine si riferisce a circostanze in cui i fatti verificati sono meno efficaci nell’indirizzare l’opinione pubblica rispetto a narrazioni che si reggono sulle emozioni o sulle credenze individuali.

Dopo le prime apparizioni in alcuni articoli del 2015, nel corso del 2016 la parola post-truth ha cessato di essere accompagnata dalla sua definizione ed è divenuta di utilizzo comune nei discorsi di commento politico ed in particolare in quelli relativi al referendum Brexit e alle elezioni presidenziali statunitensi. In Italia è stata spesso citata nei commenti sull’esito del referendum costituzionale.

Detta in termini semplici, secondo molti commentatori l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, l’elezione di Trump e il fallimento del referendum proposto da Renzi sarebbero le conseguenze di un’epoca in cui gli aventi diritto al voto decidono di non credere ai fatti reali a favore di notizie dal forte impatto emozionale. Naturalmente non è possibile stabilire quanto questa decisione sia presa dagli elettori in modo consapevole, ma sembra implicito che il discorso sulla post-truth si riferisca anche e soprattutto a quanti non sono in grado di distinguere tra una fonte di informazione attendibile e una palesemente di parte.

Del tutto prevedibilmente, al cuore dell’allarme troviamo una riflessione sui social network come principali vettori della propagazione incontrollata di notizie false e di propaganda. Sebbene le notizie siano pubblicate e condivise dagli utenti, il ruolo di queste piattaforme sarebbe molto più attivo di quanto si possa presupporre. Su Facebook, ad esempio, la colonna dei “trending feed” incoraggia direttamente la lettura e la condivisione degli articoli più letti sul social network, molti dei quali provenienti da siti inaffidabili contenenti eclatanti notizie false, amplificandone la portata.

Il magazine Buzzfeed ha portato alla luce l’esemplare vicenda di alcuni siti pro-Trump, creati da un gruppo di adolescenti macedoni, che riportavano notizie mirabolanti e totalmente inventate al solo scopo di trarre profitto dalla pubblicità di Google Ad-sense. Calunnie ai danni di Hilary Clinton che hanno generato oltre 140.000 condivisioni da parte di utenti statunitensi.

Dopo la vittoria di Trump si è quindi scatenata una bufera sulla gestione di Facebook, accusato di non voler ammettere le proprie responsabilità sulla formazione dell’opinione pubblica. In risposta alle critiche il 15 dicembre 2016 Mark Zuckerberg ha annunciato il lancio di un sistema di classificazione degli articoli che prevede l’apparizione di un particolare “flag” sulle notizie segnalate come false dagli utenti e da una speciale squadra di “fact-checkers” professionisti.

Tuttavia sono in molti a non voler lasciare alle più grandi piattaforme della rete, i cosiddetti Over The Top, la delega alla discriminazione fra notizie veritiere o meno. Commentatori ed esperti hanno evidenziato il pericolo di lasciare a compagnie private la classificazione dell’accuratezza delle informazioni presenti in rete.

A questo proposito ha destato particolare attenzione l’intervista rilasciata il 30 dicembre 2016 al Financial Times in cui il Presidente dell’Antitust italiana, Giovanni Pitruzzella evidenzia la necessità di organizzare “una rete di organismi nazionali indipendenti capace di identificare e rimuovere le notizie false”. Una sorta di Authority che avrebbe il compito di vigilare sulla verità dell’informazione.

L’idea ha sollevato un certo interesse tra i commentatori ma anche un coro di accuse riguardo ad una supposta volontà di censura da parte delle istituzioni. In Italia l’ex comico e leader politico Beppe Grillo ha definito l’allarme post-truth come “una nuova inquisizione”. Non manca chi, come Riccardo Luna, ex direttore di Wired Italia, chiede di ripensare alle responsabilità del giornalismo di qualità come baluardo contro la dilagante disinformazione, sottolineando che la post verità non è un fenomeno nuovo anche se oggi trova un’enorme amplificazione nella rete e nei social network.

Questo spunto porta tuttavia ad un’ulteriore riflessione. Se è vero che la rete ha amplificato le possibilità di incorrere in notizie false, va anche riconosciuto che la pluralità di fonti informative permette oggi più che mai di poter approfondire le notizie, analizzandole e confrontandole fra loro. Va da sé che occorre una certa capacità di discernimento per farlo, ma è solo nel contesto di una la pluralità di voci che è possibile sviluppare gli strumenti cognitivi utili a discriminare tra una notizia tutto sommato realistica e una bufala sensazionale. Pensare a soluzioni di contenimento e controllo delle notizie potrebbe quindi essere, oltre che di difficile applicazione, persino controproducente.

Sono ancora poche le voci che sottolineano la necessità di aiutare gli elettori presenti e futuri a dotarsi di strumenti intellettuali con cui riconoscere da sé le fonti più attendibili. A prescindere quindi dalle effettive soluzioni pratiche, il solo fatto di parlare pubblicamente di post-truth può costituire un primo passo verso la presa di coscienza di un problema globale che ciascuno di noi può contribuire a limitare in un modo semplice: evitando di condividere notizie non verificate.

Giulia Giapponesi

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